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  • Modalità Raccogli tutto  
  • Categoria Libri & editoria

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Ale Dí (Alessandro D'Antonio)

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Il Progetto

Né a macchina né su carta
Scritto tra strappi di tempo
Quando l'idea arriva e chiama
Via telefono senza alcun estro
Di frammento in frammento
Un tipo ha buttato giù un testo

Il titolo è preso in prestito
Da una scritta trovata in cammino
Rivolta contro l'amore moderno
Così si chiama, sembra destino

Terminato e rileggendolo
Ancora e ancora, correggendo
Nel silenzio lo ha continuato
Così l'arco di un altro capitolo è nato
E amore e pena e speranza di chi scrive
Per il personaggio inventato
In lui si è svegliato, l'ha voluto vivo
Dal digitale strappato e animato
Nel mondo stesso dov'è lui passeggiando
Ecco, sotto te ne lascio un assaggio

Ma prima: ciao!
Ti chiedo un caffè
Regolato all'inflazione, aimé
No, non prometto niente
Se non che, quando avrò pubblicato
Di offrire altrettanti caffè sospesi
Ma ti assicuro più che volentieri
Che terrò solo l'ultimo di questi per me

(Nota onesta di trasparenza:
I caffè andranno in un fondo a parte
Il cui tetto in 2100 è somma espressa
Saranno usati per una revisione editoriale
Grafica, stampa, un po' di pubblicità
Credo basta, ma se hai domande, sono qua)

❤️‍🔥


I vapori della locomotiva accarezzavano la banchina immersa nell'occludente fischio odoroso di fumo greve. L'atmosfera era evocativa di movimento meccanico frenato e di accelerazione umana, di gambe che scendevano i gradini delle carrozze, di altre che cercavano i propri posti, di valigie issate e altre afferrate e portate all'esterno della stazione da sbuffanti ragazzini troppo emaciati per il fronte o giovinette sudate in pausa dai campi.

Anjielika, in riposo sulla panchina, catturava tutto con occhio attento e carboncino che automatico scivolava nel foglio giallino. Era arrivata da qualche ora, ma appena scesa dal treno era stata scossa da un dubbio: non sapeva dove andare; l'unica certezza che aveva avuto fino a quel momento era stata la direzione e la meta indicativa ma, una volta giunta alla cittadina bavarese della famiglia della madre, si era resa conto di non avere minimamente idea di come -o dove- proseguire. Così si era seduta, in attesa, ammirando e ritraendo ciò che le scorreva davanti allo sguardo.

Era passata ad un nuovo foglio, e su esso la mano disegnava un abbozzo dei campi oltre le basse strutture al di là dei vagoni; mentre guardava l'orizzonte visivo e disegnava senza prestare attenzione a cosa il carboncino fino stesse effettivamente ritraendo le balenò in mente la consapevolezza che, dalla prospettiva nella quale era, le era impossibile ritrarre i campi retrostanti la stazione, né che poteva saperlo, se c'erano effettivamente dei campi. Abbassò lo sguardo proprio nel momento in cui una figura le si fermò davanti, proiettandole addosso la propria ombra.

“Confermo ciò che precedentemente avevo detto: avete proprio una bella mano, e una fervida immaginazione”

La voce le era familiare, ma la registrò appena, presa com'era dalla confusione: davanti ai suoi occhi aveva effettivamente un abbozzo di paesaggio -come immaginato- la cui prospettiva era aerea; ciò la colpi, anche se a scuoterla fu altro. A lasciarla basita era il fatto che, su di una panchina della stazione, aveva ritratto sé stessa.

Guardò la matita sanguigna che aveva in mano, chiedendosi quando fosse passata a quella dal carboncino. Si era ritratta come una vaga linea di contorno, priva di riempimento, ma sapeva essere lei; come sapeva che, la figura in nero, dai contorni sfumati e il corpo pesantemente segnato dai tratti del carbone era l'uomo che le si era appena palesato. Alzò lo sguardo all'ingegnere svizzero precedentemente incontrato sul treno, mostrando il disegno.

“Secondo lei cosa c'è, oltre la stazione?”

“...non posso saperlo, finché non lo vedo...posso accomodarmi?”

Levò una mano distratta con fare accondiscendente, dopodiché prese un foglio di velina, coprì i vari disegni e li ripose nella valigetta. Si girò verso l'uomo, osservandolo un poco; vide un uomo sui quarant'anni dai tratti delle coste dell'alto mediterraneo, con le spalle leggermente chiuse, occhiali e la schiena tipica di chi lavorasse tanto davanti a banchi da disegno tecnico: leggermente incurvata a metà, col collo eccessivamente proteso in avanti. Non lo reputò brutto per questo, ma non le piaceva, non le era piaciuto sin dal primo momento che le si era presentato.

“Allora?”

“Volevo porgerle le mie scuse. Non era mia intenzione, di urtarla, nel treno...”

Anjielika sorrise cortese, accettando le scuse, dopodiché si alzò, guardando l'arco d'uscita dalla stazione, sotto il quale vedeva uomini in uniforme chiedere i documenti ai passanti.

“Bene...mi offre un caffè, a suggellare la pace?...no, lo stai facendo di nuovo, me la porto da me”

“Ah!...le chiedo nuovamente scusa...”

“Non deve essere fatto tutto per forza come ci è stato insegnato, sa...?”

“Non capisco...”

L'uomo, scattando in piedi, aveva fatto per prenderle la valigetta, per portarla al posto suo; in sé aveva avvertito la stessa sensazione d'invasione di quando, sulla carrozza, aveva sentito quando lui aveva tentato di toccarla per pulirle lo sbaffo nero dalla guancia. Gli sorrise, prima di avviarsi verso i soldati, con l'altro che sopraggiungeva rapido, imbarazzato e confuso.

I soldati, dei riservisti, nel vedere la coppia avvicinarsi, si avviarono verso l'uomo; Anjelika -priva di documento alcuno- sfilò con nonchalance tra due di quelli, e senza voltarsi continuò ad avanzare; prese la prima svolta a sinistra, incuriosita di oltrepassare la stazione e scoprire cosa celava con la sua presenza, se campi o palazzi. Non avvertì nemmeno il levarsi di voci che la cercavano dall'ingresso della stazione; quando lo svizzero la raggiunse, trafelato, lei gli indicò i campi verdeggianti che si estendevano a perdita d'occhio come lucide onde collinari. Sorrideva.

“Avevo ragione, ci sono i campi!”

“...ma siete impazzita?”

“Forse. Allora, dove andiamo?”

L'uomo si schiarì la gola risistemandosi la giacca doppiopetto e recuperando un po' di controllo, dopodiché aprì un braccio a indicare la direzione, accennando ad un caffè di sua conoscenza.

Mentre camminavano per le via acciottolate contornate da palazzi a schiera di pietra e legno scuro lei lo lasciò parlare: dopo un iniziale momento di imbarazzo aveva iniziato a sciorinare un'accurata descrizione del proprio lavoro e paese d'origine. Non le fece mai una domanda, notò, come notò come facesse fatica a tenere il passo lento della sua camminata assorta, e che ogni qualche metro lui doveva spezzare l'andatura per adattarsi a lei. Notò inoltre, che l'uomo riceveva occhiate sfuggevoli e sospette da parte degli uomini e donne benvestiti e borghesi che incrociavano.

Quando furono all'ombra di un palazzo in pietra dalla facciata scura e gotica, Anjelika domandò se fosse consapevole degli sguardi che si stava attirando, chiedendo delucidazioni, prima di essere rapita da un poster affisso alla destra della porta del cafè.

“Sono le mie origini...chi è di sangue italiano non è visto di buon occhio, qua a nord...nemmeno in casa propria, in svizzera, in realtà...”

Guardò a lungo il poster, raffigurante delle contadine che, con un piede su campi arati, con posa slanciata tendevano del grano a dei soldati in retroguardia, con lo sfondo di una trincea e combattimenti aerei. Lo slogan recava la frase 'l'agricoltura: il vero motore dello sforzo bellico'. La rappresentazione era elegante e molto meno grigia ed austera dei manifesti che tappezzavano Berlino; ciò che colpì Anjelika, però -e ringraziò il cielo di essersi fermata- fu leggere, in piccolo in basso a destra, il nome dell'azienda cartiera che aveva stampato il poster: recava il cognome della madre. Ora sapeva dov'era diretta. Si chiese se, in altre circostanze, l'avrebbe visto, cosa sarebbe successo se, per esempio, non avesse accettato l'offerta dell'uomo; o se, addirittura, non vi avesse disegnato nessuno, di fianco a lei sulla panchina.

“Ha mai provato a considerarsi elvetico, o italico, invece che svizzero o italo-svizzero?”

La frase sembrò colpire l'uomo, che rimase muto, senza sapere cosa rispondere; lei rise, e non ne capì il motivo. Poi cambiò argomento, mentre si lasciava aprire la porta e gli lanciava un'occhiata di velata tristezza, frutto della rievocazione nella propria mente dello stesso gesto visto in stazione, quando lo aveva fermato dal portarle la valigia.

“A Berlino c'è il Kaiser, sui manifesti. Lì i cittadini si riconoscono col potere centrale, mi viene da dire...qui ci sono i campi e le trecce dorate, ma la faccenda non cambia...è come se fosse uno specchio, capisce?”

“No signorina, in realtà capisco poco di quello che mi dice...”

“Lo so, non ci siamo nemmeno presentati...conosce questo locale, giusto? Cos'è che le piace, di ciò che servono qui?”

Trovò l'ambiente deludente: invece che interni neogotici cupi ma affascinanti, come Anjelika si aspettava, davanti a loro si presentava uno stanzone sventrato e colorato di arredi liberty, modernissimi; l'uomo al bancone, impettito nel gilet lucido come i capelli ben pettinati, sembrava anch'esso anacronistico, se confrontato all'ambiente. Si sedettero, ordinando tè bianco e biscotti secchi, su suggerimento dell'uomo, che rassicurava sulla provenienza dell'infuso, rimanenza ben custodita -e fatta ben pagare- del periodo prebellico. 

Anjielika, mentre osservava la mezza zolletta di zucchero fornitole sciogliersi nella bevanda, condivise le proprie sensazioni circa l'ambiente con l'uomo che, notò tra sé e sé, si ostinava a non presentarsi, come aspettando di venire introdotto da qualcuno -come le regole del suo mondo imponevano- oppure che semplicemente non trovasse l'iniziativa, nonostante sembrava che il corpo l'avesse già anticipato.

“Non saprei, io lo trovo bello, quest'ambiente…"

“Lo è infatti, come sicuramente lo erano le vetrate piombate con San Giovanni, sostituite con la Primavera...un po' paradossale, visto i tempi, oltretutto”

Il sorriso che gli stava rivolgendo esplose in una risata quando si rese conto che l'uomo, nella finestra, vedeva una semplice donna ritratta dalle vesti leggere, e non la raffigurazione simbolica. Quando lui chiese spiegazioni gli fece spallucce, nel rispondere, prima che un movimento catturasse la sua attenzione, obbligandola ad alzarsi, scusarsi e ringraziare, inseguendo una donna familiare.

“Ed io che pensavo che fosse una che l'artista si fosse…chiedo scusa...come dire...”

“Fa' differenza, ciò che pensava l'artista?”

“...non capisco, certo che fa'...signorina?!”

Sorella! Una delle donne senza nome della serra le era scivolata dolcemente nel campo visivo, aprendosi la porta ed uscendo nel giorno. La inseguì…

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